Nel 2010 scrivevo la mia tesi di Laurea Magistrale sulla Responsabilità Sociale, dedicando un intero capitolo di quest’ultima al consumo critico. Oggi, a distanza di anni, mi trovo a scrivere sul PoT Blog, nel ruolo di Fondatrice e Direttrice della PoT Agency, un articolo che tratta lo stesso tema, ma con una rinnovata energia ed una più mirata speranza. All’interno della mia produzione scientifica, ed in generale durante tutti i miei anni di formazione e lavoro in Accademia, infatti, mi sono sempre rivolta a tematiche sociali in generale, affrontandole dal punto di vista di chi da dietro una scrivania, si trova a poter giudicare dall’alto i comportamenti e le pratiche dei soggetti che indaga. Quasi come nulla mi riguardasse davvero da vicino. Come se il mondo che studiavo non fosse poi lo stesso in cui ero quotidianamente immersa, in cui vivevo, mi relazionavo. Avere una azienda e scrivere un blog è tutta un’altra storia. Non puoi permetterti di elevarti a giudice, perché il primo ad essere sempre sul banco di prova sei tu: quello che scrivi, i servizi che dai e quello che produci. E sei tu ad essere in attesa del giudizio dei tuoi clienti: ora sono loro che ti osservano e che ti valutano. Dedicare oggi parte del mio lavoro alla promozione di principi quali la sostenibilità e l’etica ha un significato molto diverso. I valori smettono di essere solo parole da rivendicare, ma diventano vere e proprie pratiche da dimostrare coi fatti, attraverso scelte che nel mercato competitivo e saturo di oggi sono difficili da portare avanti. Proprio per questo ho deciso di dedicare uno spazio intero ad una realtà che riesce a rendere questi principi una vera e propria attività commerciale. Tutto è partito poco tempo fa. Mi trovavo nel bar del nuovo quartiere dove sono andata a vivere, seduta su una sedia nell’area esterna a fare colazione. Vicino a me vedevo persone che di continuo entravano e uscivano da un negozio con una grande e vivace insegna blu: “Mercatino. Compra e vendita usato”. Così, finito il mio cappuccino caldo, ho deciso di entrare anche io in quel mondo che poi ha finito per affascinarmi tanto da volerlo raccontare per condividerlo con voi…

 

Ora facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire meglio cosa sia la Responsabilità Sociale. Questo concetto rappresenta il superamento da una parte, quella delle imprese, di quella che tradizionalmente viene definita come la Corporate Social Responsibility (CSR), e dall’altra, quella dei consumatori, del cosiddetto consumo critico. La Responsabilità Sociale Condivisa, quindi, coinvolge tutte le sfere sociali presenti a livello territoriale. In quest’ottica, non sono più la singola impresa, istituzione o cittadino a doversi interrogare sulla qualità del proprio sistema di relazioni per arrivare a definire strategie ed azioni con l’intento di perseguire in modo più efficiente la propria missione, bensì, seguendo questa nuova visione, occorre che vi sia una rete di soggetti ed istituzioni capaci di interrogarsi su quella che è l’efficacia delle azioni comuni. Non basta che poche imprese da una parte e pochi consumatori dall’altra condividano una dimensione di responsabilità e di criticità nei confronti del modello sociale ed economico prevalente oggi, ma è necessario che tutto il sistema economico, politico, sociale e territoriale sia orientato verso questa prospettiva. Questo paradigma si basa sull’affermazione di un Homo Civicus, un individuo, cioè, che non vive più passivamente le circostanze, ma che, al contrario, diventa artefice della propria vita capace di coniugare il pensare a se stesso con il vivere per gli altri, così come sottolinea con forza simbolica Ulrick Beck attraverso l’uso del concetto di “individualismo altruistico”. L’Homo Oeconomicus, caratterizzato da un individualismo egoistico, abitante ideale di una società caratterizzata dall’assenza di principi a carattere sovra-individuale, una crescente assenza di norme, una pluralità delle autorità ed una presenza di orientamenti etici tra loro eterogenei, deve trasformarsi allora in un uomo cooperativo e capace di compiere scelte morali.

 

Per alcuni di voi potrebbe risultare difficile tradurre questa spiegazione scritta attraverso l’utilizzo di termini tecnici delle scienze sociali con esempi di vita concreta, comportamenti, pratiche ed esempi di responsabilità sociale e consumo critico. Per superare questo ostacolo ho deciso di incentrare il mio articolo sul tema del fashion etico e sostenibile. Nel nostro, che è il Paese della moda per eccellenza, parlare di abiti, scarpe ed accessori, infatti, può aiutarmi a raggiungere molte più persone di quanto le parole complesse possano fare. Inoltre, attraverso gli articoli del PoT Blog ed i lavori ed i progetti della PoT Agency, sto cercando di dimostrare come, nonostante molti pensino il contrario, l’abito in alcuni casi faccia il monaco. Un vestito non è quasi mai solo un vestito. Un vestito è molto di più di qualcosa che ci buttiamo addosso al mattino per coprirci e uscire di casa. Un vestito è un manifesto, è quello che siamo e che vorremmo essere. Rappresenta quello che pensiamo, in cui crediamo ed il mondo in cui vorremo vivere. Con la sua forza comunicativa un outifit amplifica il volume delle nostre battaglie. Pensiamo al movimento femminista, alle sue minigonne ed alle camicette portate senza reggiseno. Alla primavera araba e le immagini delle tante donne ritratte senza il velo sui capelli. La moda, forse proprio grazie alla sua leggerezza e la sua capacita di conquistarci, a prescindere dal nostro livello culturale, classe sociale ed etnia, ci mette tutte in prima linea nel mostrare ciò che vorremmo per noi e per il mondo.

 

Il tema della lotta contro l’inquinamento ambientale ed il problema del cambiamento climatico in corso non poteva trovare, quindi, migliore alleato che il mondo della moda. Non dobbiamo, quindi, meravigliarci se, sfogliando le riviste e leggendo le numerose fashion blogger, troviamo sempre più articoli dedicati al tema della moda etica e sostenibile. Quello che, come sociologa dei consumi che svolge le proprie analisi partendo da uno spirito critico di base, mi chiedo è: “Si tratta di una vera e sincera attenzione al tema ambientale o piuttosto di un “green washing” per avvicinare un pubblico di nuovi consumatori che si dimostra sempre più attento nel fare le proprie scelte di consumo? E soprattutto, come possiamo essere in grado di distinguere coloro i quali sono interessati a dare risposta ai problemi legati all’industria della moda da chi, al contrario, ha solamente trovato un nuovo specchietto per le allodole con lo scopo di incrementare i propri affari?”

 

Perché, nonostante io sia la creatrice di un modello di business che si occupa di creatività, e quindi tra i vari settori anche di quello del fashion e del beauty, con l’onestà che mi contraddistingue voglio ammettervelo: il mercato della moda nasconde dei lati oscuri.

Ho deciso, quindi, di riportare qui una breve lista che riassume i problemi più importanti ed i lati negativi di questo mondo.

 

– L’inquinamento

Quella della moda è una delle industrie che più inquinano al mondo.

Questo vale in particolar modo per il modello della “moda veloce”, nato con lo scopo di promuovere la produzione di abbigliamento economico in modo così veloce da essere sempre in linea con le più recenti tendenze della moda. L’espressione “fast fashion”, venne utilizzata la prima volta all’interno di un articolo pubblicato sul New York Times alla fine del 1989, all’apertura delle porte dello store di Zara nella Grande Mela, e fa riferimento al modo in cui i grandi rivenditori oggi trasformano l’idea di un disegnatore in un articolo disponibile al pubblico nel giro di poche settimane vendendolo sul mercato ad una fascia di prezzo accessibile davvero a tutti. Il moltiplicarsi di questi brands ed il loro successo nel fornire alle masse abiti economici e di tendenza hanno condotto ad un grosso cambio nel comportamento dei consumatori, arrivando a ridisegnare dominandolo il settore della moda: questa tendenza, infatti, ci ha permesso di costruire un armadio sempre più grande, con capi che indossiamo e sfoggiamo giusto il tempo di farci trascinare nella scia del trend del momento. Tutto questo è possibile grazie a strategie create con lo scopo continuamente nuovi trend, che svolgono un ruolo chiave nel far funzionare l’intero meccanismo: quello di indurre le persone ad acquistare d’impulso.

Lasciando da parte in questo articolo le questioni riguardanti il tema dell’influenza sui modelli di consumo piuttosto che, in generale, della creazione di un modello di pensiero dominante, quello che vorrei sottolineare è come questo modello provochi effetti devastanti a livello di impatto ambientale. I dati e le ricerche svolte, infatti, dimostrano come l’industria della moda sia responsabile del 20 per cento del consumo di acqua e del 10 per cento delle emissioni di anidride carbonica; produca ogni anno 92 milioni di tonnellate di rifiuti; sia collegato alla produzione del cotone vi sia il 24 per cento dell’uso di insetticidi; generi emissione di gas serra più degli spostamenti aerei e navali di tutto il mondo.

Un problema particolare, ad esempio, è collegato all’utilizzo di determinate materie prime per la produzione tessile. Studi condotti sull’industria della moda mostrano, ad esempio, che l’85% di questi sono realizzati con cotone prodotto nelle distese del Texas o dell’Argentina di tipo OGM (organismo geneticamente modificato). Questo, tra le altre cose, porta i grandi coltivatori a scegliere di spruzzare diserbanti sulle distese ampie dei loro campi, con lo scopo di intensificare i loro raccolti. Questa scelta ha, però, effetti negativi devastanti sull’ambiente e sulla salute delle persone residenti in quei luoghi. Inoltre, esiste una vera e propria questione legata agli scarti prodotti da quest’ultima. Essi, infatti, finiscono nelle acque dei fiumi, le quali vengono utilizzate dalla popolazione locale. Un caso allarmante è quello del Gange, il più grande fiume indiano, in cui è stata riversata una sostanza per trattare il cuoio chiamata Cromo 6, che ha finito per provocare in molte persone tumori o malattie epatiche.

Ho riportato qui questi pochi esempi solo per farvi comprendere come i nostri acquisti e le nostre scelte di consumo siano il carburante che alimenta un un modello di business del tutto insostenibile e distruttivo per il mondo in cui viviamo e in cui vivranno le future generazioni.

 

– Lo sfruttamento

In relazione all’industria della moda, se gli effetti negativi dal punto di vista ambientale sono questioni affrontate sia da media, che da influencer, nonché da brand che sempre più spesso realizzano linee di abbigliamento composte da abiti ed accessori sostenibili, quello spesso non viene trattato è il tema delle conseguenze e dei problemi in ambito sociale. Molti dei nostri vestiti, infatti, provengono dall’altra parte del mondo, da luoghi in cui i lavoratori dell’industria tessile vivono e lavorano in condizioni vicine alla schiavitù, in fabbriche nelle quali diritti umani, talvolta anche quelli più basilari, non vengono rispettati.

Secondo un rapporto “Salari su misura 2019: Lo stato delle retribuzioni nell’industria globale dell’abbigliamento”, pubblicato dalla Clean Clothes Campaign, nessun grande marchio di abbigliamento è in grado di dimostrare che i lavoratori che producono i loro capi in Asia, Africa, America Centrale o Europa Orientale siano pagati abbastanza per sfuggire alla trappola della povertà. Dalla ricerca è emerso, infatti, che se da un lato l’85% dei marchi si è impegnato in qualche modo a garantire che i salari siano sufficienti a soddisfare le esigenze di base dei lavoratori, al contempo, nessuno di loro ha messo in pratica questo principio per nessun lavoratore nei Paesi in cui viene prodotta la stragrande maggioranza dei capi di abbigliamento. Dei 20 marchi intervistati per la ricerca, 19 hanno ricevuto il voto più basso possibile, mostrando di non essere in grado di produrre alcuna prova che a un lavoratore che confeziona i loro capi di abbigliamento sia stato pagato un salario vivibile in qualsiasi parte del mondo. L’unica caso virtuoso è emerso essere il marchio italiano Gucci, che ha dimostrato come, per una piccola parte della sua produzione in Italia e grazie alle trattative salariali nazionali, garantisca ai suoi lavoratori paghe che consentono a una famiglia media del Sud e del Centro Italia di vivere una vita dignitosa. A seguito dell’analisi dei risultati emersi, Deborah Lucchetti della “Campagna Abiti Puliti”, sezione italiana della “Clean Clothes Campaign”, ha dichiarato: “Le iniziative volontarie non sono riuscite a garantire i diritti umani dei lavoratori. Il modello economico globale che spinge i prezzi al continuo ribasso e mette in competizione i Paesi a basso salario è troppo forte. È un dato di fatto che i lavoratori che producono quasi tutti gli abiti che compriamo vivono in povertà, mentre le grandi marche si arricchiscono grazie al loro lavoro”. In particolare, è stato dimostrato come salari di base in Etiopia e Bangladesh siano meno di un quarto del salario dignitoso e come in Romania e in alcuni altri paesi dell’Europa orientale il divario sia ancora maggiore, poiché i lavoratori guadagnano solo un sesto di quanto necessario per vivere con dignità e mantenere una famiglia.

Il controllo del Paese di provenienza del marchio non è, però, garanzia di trasparenza in questo senso. Nel caso di alcune grandi multinazionali proprietarie di brand occidentali, infatti, la fase di produzione dei prodotti viene esternalizzata a reparti o ad altre imprese la cui sede è localizzata in luoghi nei quali i diritti dei lavoratori non sono garantiti o, addirittura, nemmeno previsti dalla legge.

Affrontando questo argomento nella mente di molti di voi si immaginerà subito io faccia riferimento all’industria cinese. La verità, invece, è che questo è uno stereotipo ormai anacronistico che deve essere superato. Se in passato il contenente asiatico rappresentava davvero un luogo altamente a rischio, oggi la situazione sembra in fase di trasformazione: anche in Cina, infatti, si stanno affermando sempre più i diritti tipici delle democrazie occidentali. Al contrario, occorrerebbe aprire nuove forme di controllo per quando riguarda i prodotti provenienti da Paesi come l’Etiopia e il Bangladesh, in cui si stanno aprendo molte fabbriche, nonché quelli esportati da Paesi della stessa Europa, come ad esempio Bulgaria e Serbia, che presentano un livello di sfruttamento dei lavoratori molto alto.

 

– Il costo

“Chi più spende, meno spende”. Questo detto sta a significare che se si paga un prezzo più alto ci si garantisce una qualità maggiore rispetto ad un capo o un accessorio con un prezzo più basso. La spesa fatta per consumare, in questo senso, rappresenta un investimento per l’acquisto di prodotti più duraturi, meno impattante sull’ambiente e per un migliore tenore di vita dei lavoratori. Questa logica, che pervaso fino ad ora il nostro immaginario, non è però più sempre vera. Un prezzo basso può derivare, infatti, non solo da una qualità inferiore del prodotto o della responsabilità collegata alla sua realizzazione, bensì anche dall’utilizzo della tecnologia, dalla scorporazione dell’offerta in alcune componenti di costo e da tanti altri fattori legati alla produzione, la logistica ed il marketing. Il cliente, sempre più attento ed esigente, abituato a modelli come quello Amazon, che coniuga prezzi bassi ad un servizio eccellente, non si aspetta che un servizio o un prodotto low cost sia allo stesso tempo high value. L’enfasi pubblicitaria legata ai più importanti brand di moda, che per decenni ha giustificato un aumento dei prezzi sconsiderato rispetto al valore reale dei capi e degli accessori sembra, inoltre, non rivestire più un ruolo centrale per la costruzione di strategie di comunicazione efficaci per raggiungere i consumatori di oggi. Sempre più importante, infatti, risulta il rapporto qualità/prezzo, la provenienza, la sostenibilità, la possibilità di personalizzazione dei singoli abiti o accessori, la capacità di intercettare i gusti dei consumatori in un rapporto diretto con loro. Si badi bene, però, non voglio asserire che spendere meno rappresenta sempre e comunque la scelta migliore. Al contrario, vorrei dimostrare come non ci sia più una netta divisione tra i clienti del tutto orientati al lusso e coloro che scelgono il low budget. Tutti noi, infatti, in alcuni casi facciamo scelte di consumo di tipo low cost mentre per altre decidiamo di spendere. Una sorta di mood che spazia da Zara a Vuitton. Acquistare a poco prezzo non è più una questione dettata dal portafoglio, uno stigma di cui si deve vergognarsi e perfino tentare di nascondere, ma al contrario rappresenta una scelta smart anche per chi potrebbe permettersi altro. I dati e le ricerche di mercato, inoltre, dimostrano come sia poco probabile che il consumo low cost cannibalizzi i settori tradizionali. Questo, piuttosto, ha dato influito nella creazione di una nuova domanda: anziché portar via fette di torta, l’ha ampliata. In conclusione, la possibilità di acquistare capi ed accessori a basso prezzo seppur di buona qualità ha portato ad una democratizzazione dei consumi e ad una sana concorrenza tra i diversi business del mercato della moda.

 

– I grandi marchi

La vita mi ha insegnato che è sbagliato generalizzare. Regola, questa, che vale anche per il tema che sto affrontando all’interno di questo articolo. Diverse ricerche ed inchieste condotte sui lati oscuri del mondo della moda hanno dimostrato, infatti, come la responsabilità sociale non sia collegata a caratteristiche del brand e dell’impresa, quali: la sua popolarità, il suo valore economico sul mercato, il luogo in cui ha la sede, etc.

Però, diciamoci la verità. Se quando compriamo un capo d’abbigliamento a pochi euro e presso una catena di moda low cost, non ci sconvolge l’idea che questo sia stato realizzato dall’altra parte del mondo, con materiali non di prima qualità e da un operaio pagato con un salario non dignitoso, la cosa cambia quando per i nostri acquisti i prezzi iniziano a salire, raggiungendo anche il migliaio di euro. In questo caso, ci risulta difficile pensare che le materie prime siano scarse, e che il nostro capo di moda sia stato fabbricato in un Paese del Terzo Mondo per pochi euro. Eppure è proprio questo che accade quando si analizza tutta la filiera legata alla produzione di abiti ed accessori del mondo scintillante del fashion e del beauty.

Se la fase di produzione di molti brand nel settore del lusso viene realizzata in Paesi come l’Armenia, Romania, Repubblica Moldava e Bulgaria, non è certo per la ricerca di una migliore qualità ed esperienza, bensì per una questione di costi. Si tratta di una vera e propria corsa al prezzo più conveniente, un tour tra gli stati dell’est che offrono il prezzo migliore. Uno dei luoghi di maggior produzione, almeno in questo momento, risulta essere la Transnistria, di cui la maggior parte di voi credo nemmeno conosca l’esistenza (lo dico perché la cosa riguarda in primis me prima dello studio che ho svolto per scrivere questo articolo). Si tratta di uno stato auto-proclamato facente parte della Repubblica di Moldavia, un territorio nemmeno riconosciuto dalle Nazioni Unite ma conosciuto molto bene dai signori del lusso. Un luogo dove in cui l’asticella del prezzo e della dignità viene abbassata ogni giorno di più e dove i giornalisti è vietato entrare. Al contrario sono accolti davvero bene turisti e soprattutto uomini d’affari, che in Transnistria sono per l’80% italiani. Studiando le inchieste legate a questo tema, sono rimasta sconvolta nel sapere come per esempio per la realizzazione di un giaccone che in Italia viene venduto a quasi 2.000 euro, corrisponde un salario di dipendente che va, nei migliori dei casi, dai 18 e i 30 euro.

Quello che si gioca nel settore della moda sembra un vero e proprio tiro alla fune per accaparrarsi il costo più stracciato possibile per un capo, il quale poi finisce nei nostri armadi a seguito di un ricarico impressionate sul prezzo della vendita.

 

– L’estetica

Oscar Wilde diceva: “La moda è una forma di bruttezza così intollerabile che siamo costretti a cambiarla ogni sei mesi”. Parole provocatorie che, però, descrivono in modo efficace il vorticoso rincorrersi che avviene a ogni giro di boa tra le numerose proposte di fashion che da bellissime si trasformano in demodé in un tempo sempre più breve.

Esiste però una moda che non si riduce alla mera costruzione di un trend, a fattori legati al business e al profitto, piuttosto che riduzione dei costi industriali. Esiste una moda capace di mettere in primo piano il valore artistico dei prodotti, nonché l’espressione culturale e valoriale che portano con sé. Secondo questa moda, il concetto di bello è, perciò, intimamente legato a quello di buono (nel senso di sostenibile e responsabile).

 

Un esempio legato a questo tema è progetto no-profit “EticaEstetica” di Enzo Caldarelli, visionario libero pensatore e viaggiatore, amante dell’arte. Il suo progetto, infatti, al quale hanno aderito personalità come gli attori Ennio Fantastichini e Elena Sofia Ricci, il fisico David Jou, lo chef Martin Berasategui, oltre a Carlo Capasa, presidente della Camera della Moda italiana, ha lo scopo di far riflettere sui confini sottili che esistono e legano tra loro i concetti di etica e di estetica. Il legame esistente tra etica ed estetica, sostiene il creativo, è decisivo per il nostro modo di essere poiché ha implicazioni sulla nostra condotta e sul nostro stile di vita, definendo, quindi, il nostro limite in termini di dignità e buon gusto. Il messaggio che vuole veicolare in breve è: senza etica l’estetica diventa superficiale cinismo e senza estetica l’etica diventa petulante moralismo.

Questo pensiero dovrebbe diventare un mantra da per-seguire durante tutte le fasi che riguardano i settori della moda. Ed in particolare, dovrebbe essere ribadito a chi pensa che gli abiti e gli accessori responsabili e sostenibili non possano o debbano interessarti alle questioni legate lo stile, la comunicazione e il marketing, e possano insomma risultare sul mercato ben poco attraenti. La moda etica potrà avere un vero impatto, infatti, solo se sarà capace di uscire dalla sua posizione marginale e di nicchia sul mercato. Occorre sfatare il luogo comune che associa l’abbigliamento etico ad un target di consumatori non interessati a quell’appeal che rende i prodotti di moda anche di tendenza, trasformandoli, al contrario, nel risultato di una costante ricerca nel tentativo di tenere insieme estetica ed etica.

 

Il sito del movimento “Fashion Revolution Italia” inizia con la frase che recita: “La moda è una forza importante, di cui tenere conto nella nostra società. Può suscitare emozioni, provocare, guidare, affascinare”. Ho riportato qui la loro frase di benvenuto per far comprendere come non sia il rifiuto della moda a soluzione ai problemi che vi ho elencato all’interno di questo articolo.

Quello che dovremo fare, al contrario, è mettere in pratica le parole del Mohandas Karamchand Gandhi, che ci insegnano come siamo noi a dover essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Questo, che può sembrare una filosofia di vita lontana dal nostro tema, si traduce semplicemente nel compiere scelte consapevoli e responsabili quando acquistiamo nel mondo della moda e del beauty.

 

Una delle risposte pratiche per mettere fine al circolo vizioso senza fine tipico, in particolar modo, dell’industria della fast fashion è rappresentata dall’acquisto di abiti di seconda mano. La mattina in cui ho visto per la prima volta l’insegna del Mercatino Eur, entrare nel negozio, conoscere di persona i suoi lavoratori, immergermi tra le corsie allestite con abiti di tutti i colori e materiali, visitare il sito web, i social media e gli articoli del blog, tutto questo mi ha fatto comprendere come spesso per i problemi più grandi esistono soluzioni davvero semplici che si trovano ad un passo da noi. E come l’informazione sia la migliore arma per sconfiggere il nemico che minaccia il mondo della moda.

Il Mercatino Eur, fondato nel 1995 a Mostacciano, una zona di Roma caratterizzata dal verde che la circonda e la sua popolazione gentile e socievole, è un esempio concreto di come responsabilità sociale ed ambientale possano divenire il punto di forza di un’attività di business. I suoi reparti sono davvero numerosi, colorati e ricchi di oggetti di tutti i tipi. Nonostante la proposta così ampia gli scaffali e in generale l’ambiente del Mercatino Eur è pulito, ordinato ed allestito in maniera impeccabile.

Quello che mi ha colpito maggiormente è il settore dedicato alla moda. Il mondo degli abiti e degli accessori dell’usato è sempre stato per me di enorme interesse. Ricordo che nell’anno passato a Cambridge durante il mio ultimo anno di Dottorato, amavo recarmi spesso nei mercatini affollati di Londra, affrontando la ricerca di un vestito, una borsa o un oggetto particolare come una vera e propria sfida: trovare il pezzo più cool al prezzo più basso. In Italia, però, a causa da una parte degli stereotipi negativi che esistono sul mondo dell’usato, dall’altra su temi reali legati a questa realtà, mi sono pian piano allontanata da questo mondo. Generalmente sui vestiti e gli accessori usati si abbatte il pregiudizio secondo il quale questi sarebbero sporchi, rovinati e fuori moda. Inoltre, i luoghi in cui possiamo trovare questi prodotti si differenziano spesso in due tipologie opposte: da una parte vi sono negozi in cui i prodotti di tutti i tipi, spesso riuniti in vere e proprie cataste, vengono abbandonati in maniera confusionaria e lasciati a deteriorarsi nel tempo; dall’altra esistono le boutique dei cultori del vintage, che propongono nella maggior parte dei casi pezzi di grandi firme a prezzi altissimi.

Il Mercatino Eur mi ha sorpreso mostrandomi una realtà capovolta. I settori del negozio sono divisi tra loro per tipologia di prodotti proposti, tutti puliti ed ordinati e ciascuno dei quali gestito da un responsabile esperto in tema di qualità, prezzi sul mercato etc. Le corsie dell’ambiente dedicato alla moda, in particolare, non hanno davvero nulla da invidiare a quelle di un negozio total-look di tendenza. Gli abiti venduti sono in perfetto stato e molti sembra non siano nemmeno mai stati utilizzati prima. E’ stato bello vedere come i commessi, oltre ad aiutare i clienti nei loro acquisti, trascorrono il tempo nel sistemare i capi dividendoli per genere, colore e marchio. Come le scarpe siano sempre sistemate, tutte ripulite e riunite in base al loro numero, sugli degli scaffali che si trovano proprio al centro del reparto moda. E come anche per la presentazione degli accessori niente sia lasciato al caso: sono allestite, infatti, vetrine che mostrano ai clienti tutta la bigiotteria in vendita, in modo tale che si possa decidere come comporre il proprio outfit valutando tra tutte le opzioni disponibili quel giorno all’interno dello store.

Credo sia grazie propria questa cura ed attenzione per i dettagli, la dedizione ed esperienza delle persone che vi lavorano, la presenza di prodotti sempre nuovi e di tendenza, la proposta di servizi innovativi, come quello dell’acquisto e la vendita di capi e accessori delle grandi firme, che rendono questo spazio non un mero negozio, bensì un luogo da vivere a 360 gradi, un posto in cui le persone di recano anche più volte a settimana per aggiornarsi sulle novità e le nuove proposte, in cui potersi confrontare con persone gentili ed interessate a far star bene il cliente e non per forza a dovergli vendere qualcosa a qualsiasi costo.

Il Mercatino Eur, inoltre, non mette in pratica solamente valori come il rispetto per l’ambiente, i lavoratori e il giusto rapporto tra costo e prezzo del prodotto, ma crea al suo interno un circuito economico sostenibile basato sulla logica dell’economia circolare, in cui ciascuna persona può divenire soggetti economico, solamente portando al negozio oggetti che, per necessità o semplicemente perché se ne vuole liberare, torneranno a rivivere all’interno di una nuova casa, anziché diventare uno scarto privo di valore economico.

Davvero incuriosita ed affascinata da questo luogo magico non vi meraviglierete se vi confesso che, una volta tornata a casa, mi sono subito messa alla ricerca di altre informazioni sul web che riguardassero il Mercatino Eur. La sorpresa è continuata nel verificare come i suoi servizi fossero a disposizione dei suoi clienti anche dopo essere usciti dal negozio. Il Mercatino Eur, infatti, è provvisto di una speciale app scaricabile su tutti i dispositivi mobile per aggiornare i suoi clienti sullo status della vendita dei loro prodotti, di un ecommerce in cui poter visionare i prodotti in vendita per provvedere all’acquisto e alla consegna direttamente e comodamente a casa propria, di un blog in cui tenersi informati su molti temi interessanti legati alle loro attività e non solo.

 

Per tutti questi motivi ho quindi deciso di tornare al Mercatino Eur e chiedere alla sua giovane Direttrice di poter realizzare uno shooting fotografico con il team della PoT Agency. Credo, infatti, che le immagini che abbiamo realizzato per voi possano farvi vedere quello che anche io ho visto coi miei occhi.

La dimostrazione più forte che posso darvi, però, sul fatto che ciò che vi dico e scrivo ciò in cui credo davvero, è data dalle queste immagini che vi mostrano me, ospite di un evento organizzato da Linda Caroli, consulente di finanziario di Banca Mediolanum, vestita di un abito da sera lungo a sirena di colore rosso, che ho abbinato ad un paio di scarpe decolté dello stesso colore, il tutto al costo di meno di 20 euro, che ho acquistato il primo giorno in cui ho fatto visita al Mercatino Eur di Mostacciano a Roma.

A questo punto, amiche e amici della PoT Agency, non vi resta che fare come San Tommaso: visitate il Mercatino Eur e fate la vostra scelta per una moda che racconti il mondo in cui desiderate vivere!

Elisa Badiali